16 febbraio 2009

La legge della cosca


L'Italia della P2

Per Marco Travaglio - da Voglioscendere.it
"Buongiorno a tutti.
Partiamo da qua: dalla relazione della Corte dei Conti all'inaugurazione dell'anno giudiziario della giustizia amministrativa che, se siete interessati, potete trovare sul sito cortedeiconti.it.

E' una relazione agghiacciante per quanto riguarda il sistema della corruzione in Italia e per quanto riguarda gli sperperi del denaro pubblico nei settori delle consulenze, della sanità, dei rifiuti.

Si parla di enormi quantità di denaro pubblico che se ne vanno: noi continuiamo a pompare i soldi delle nostre tasse dentro un acquedotto bucato, pieno di buchi, una specie di groviera e i soldi escono a tutti i livelli senza arrivare quasi mai a destinazione.

Se voi leggete questo rapporto e poi leggete di che parlano i giornali e i politici, vi rendete conto del perché questo acquedotto, se non si cambiano radicalmente le cose, è destinato a perdere sempre più acqua e noi siamo destinati a non vedere più alcun risultato rispetto agli enormi sforzi che siamo chiamati a fare contribuendo alle spese di uno Stato che ormai non esiste più.

Perché i giornali, preso atto di quello che dice la Corte dei Conti, dovrebbero, in un paese normale e serio, registrare dichiarazioni allarmatissime dei politici e del governo ma soprattutto dell'opposizione con delle proposte concrete per tamponare questa enorme emorragia di soldi pubblici che fa dell'Italia il Paese più corrotto dell'Occidente, come ha detto anche l'ambasciatore americano Spogli lasciando l'Italia - “Paese corrotto” -, come dicono tutte le ricerche internazionali, come dice un grande giornale tedesco in questi giorni che ha definito l'Italia “stivale putrido”.

Invece, non c'è traccia anche di un minimo tentativo di rimediare a questa drammatica denuncia della Corte dei Conti, anzi si sta lavorando per praticare altri fori e voragini nell'acquedotto dei soldi nostri.Soprattutto, si sta lavorando per cercare di impedire in tutti i modi che le forze dell'ordine e la magistratura riescano a scoprire chi pratica questi fori e chi succhia i nostri soldi dalla conduttura.

Le leggi “ad sistemam”
Qualche anno fa si parlava di leggi ad personam, si facevano le leggi ad personam e la definizione era tecnicamente perfetta, perché le leggi fatte nella legislatura 2001-2006 dal secondo governo Berlusconi erano tutte per risparmiare i processi al presidente del Consiglio e ai suoi complici.

In questa legislatura di leggi ad personam abbiamo visto il lodo Alfano – e speriamo che sia presto spazzato via essendo una porcheria incostituzionale – ma quello che stanno preparando in Parlamento con una miriade di provvedimenti, che sembrano scollegati e improvvisati, non ha più niente a che fare con la logica delle leggi ad personam.

Queste sono leggi ad sistemam, se così si può dire: sono leggi molto organiche che non puntano più a salvare Tizio o Caio dai processi ma puntano a salvare l'intero establishment, l'intera Casta... diciamo l'intera cosca, chiamiamola con il suo nome perché ormai risponde a leggi che non sono più quelle che vengono imposte a noi, quindi è una gigantesca cosca politico-finanziaria, con i finanzieri al volante e i politici a rimorchio.

E' un disegno estremamente organico e pericoloso e se voi ci fate caso – io quale esempio lo farò – è un disegno che sistema tutto, proprio nei minimi particolari, anche negli angoli, anche se non c'è un disegno di legge organico: una norma la trovate nella legge sulle intercettazioni, un'altra nel pacchetto sicurezza, un'altra nella legge sulla giustizia, altre sono già passate e non ce ne siamo neanche accorti.

Proviamo a vedere questo disegno organico che, ripeto, soddisfa ogni esigenza dei settori più putribondi della cosca.Intanto il punto di partenza: quando un'indagine parte, quando uno di questi reati che la Corte dei Conti denuncia: un miliardo e settecento milioni all'anno di citazioni per danni erariali.

Voi capite che stiamo parlando di quasi due miliardi di euro di danni erariali scoperti, quindi immaginate quanti sono quelli da scoprire.

Chi segue il blog di Beppe Grillo sa bene, grazie a giornalisti come Ferruccio Sansa e come Menduni, lo scandalo dei gestori di slot machines che devono allo Stato una barcata di soldi che lo Stato non è riuscito o non ha voluto incassare. Stiamo parlando di quello.

Quando si scoprono questi tipi di reati? Quando le forze di Polizia mettono le mani su uno di questi scandali o, più probabilmente trattandosi di personaggi potenti legati alla politica, quando il magistrato decide di sua iniziativa di aprire l'indagine.Il rubinetto chiuso delle indagini

Ora, l'abbiamo già raccontato nelle scorse settimane, il magistrato di sua iniziativa non potrà più avviare nessuna indagine: il disegno del governo prevede che le indagini si possano avviare soltanto quando le forze di Polizia le attivano. Dato che le forze di Polizia dipendono dal governo nessun poliziotto spontaneamente, salvo sia un suicida o kamikaze, si prenderà più la responsabilità e la briga di avviare un'indagine su un suo superiore, collega o politico da cui dipende la sua carriera.

Si inserisce un filtro nel rubinetto per bloccare alla fonte certi tipi di indagine e non farle più arrivare a valle sul tavolo del magistrato e poi del giudice che giudica. Tutto rimane com'è, tutti rimangono indipendenti, sia il PM, sia il GIP, sia il giudice, la Corte d'appello, la Cassazione ma tanto della loro indipendenza non se ne fanno più niente perché a monte il rubinetto ha filtrato fin dalla partenza, in modo che certe indagini sui colletti bianchi non partano più.Questo è il primo punto.C'è però il caso che qualche poliziotto, carabiniere, finanziere, vigile urbano, tutti quelli che possono fare l'ufficiale di Polizia giudiziaria, si imbatta in un reato e decida di non nasconderlo, di denunciarlo, di fare delle indagini a suo rischio e pericolo, coraggiosamente.

Siamo un Paese dove bisogna essere coraggiosi per fare il proprio dovere ma ci sono ancora tante persone coraggiose che fanno il proprio dovere. Negli altri Paesi ci vuole coraggio per fare i delinquenti, in Italia ci vuole coraggio per restare persone perbene ma ne abbiamo ancora, per fortuna, spesso anche nelle forze dell'ordine.

Come fare a evitare che questi onesti funzionari e servitori dello Stato portino a termine il loro lavoro? Oggi è difficile, oggi bisogna trasferirli oppure promuoverli in altra sede per mandarli via: promuoveatur ut amoveatur.

E' capitato a De Magistris: aveva un ottimo capitano dei Carabinieri, Zaccheo, e per mandarlo via hanno dovuto prima mandare via De Magistris, perché occorre il visto del magistrato per poter traferire un ufficiale di Polizia giudiziaria. Se il magistrato dice no, l'ufficiale rimane.

Anni fa si era scoperto, ascoltando mafiosi che parlavano tra di loro con le intercettazioni telefoniche a Trapani, che questi prevedevano entro poco tempo il trasferimento del capo della Mobile di Trapani, un grande poliziotto, si chiama Linares.

Contavano i giorni per il trasferimento di questo, che era diventato la loro bestia nera.

I magistrati, ascoltando i mafiosi, scoprono che i politici vogliono trasferire Linares e allora fanno un bel parere negativo in modo che non venga spostato, e Linares non viene spostato.

Stanno provvedendo a questo. Come? C'è uno degli articoli della legge sulla giustizia in discussione in Parlamento che prevede che si possano trasferire gli ufficiali e gli agenti di Polizia giudiziaria senza più il visto, il parere vincolante del magistrato.

Il magistrato dice “li voglio qua” e il governo li può trasferire lo stesso.

Risolto il problema, quindi.Si crea un sistema per cui la Polizia non è più invogliata a portare certe notizie di reato sul potere, se poi qualche poliziotto, carabiniere o finanziere lo fa lo stesso lo si manda via e il magistrato non può più impedirlo.

Terzo: ci possono essere delle indagini nate come si vuole, gestite da un pubblico ministero giovane, uno dei tanti sostituti procuratori che costituiscono l'ossatura della magistratura in Italia. Sono giovani, entusiasti, hanno studiato la Costituzione da poco, ci hanno creduto nella Costituzione, pensano che la legge sia uguale per tutti, conducono indagini e arrivano magari a risultati importanti. Bene, per fare qualunque cosa dovranno ottenere il visto del loro procuratore capo: per chiedere un'intercettazione, un arresto, un rinvio a giudizio.

Controllarne 100 per educarne 2000
Una volta, fino a due anni fa prima che ci toccasse la disgrazia di Mastella ministro della giustizia e prima ancora di Castelli ministro della giustizia, l'azione penale era nelle mani di ogni singolo sostituto procuratore.

Sono circa duemila: se uno apre un'indagine il suo capo non gli poteva fare niente. L'indagine non era delega dal capo al sostituto, era il sostituto titolare di quell'indagine e nessuno gliela poteva portare via, a meno che non ci fossero gravi motivi che però il suo capo doveva andare a giustificare davanti al Consiglio Superiore.

Hanno fatto la riforma dell'ordinamento giudiziario, l'ha fatta Castelli, l'ha rimaneggiata Mastella: i responsabili dell'azione penale sono diventati i capi delle procure, che sono pochissimi, circa 150.

Controllare 150 persone o una parte di essi è molto più facile che non controllare 1500-2000 pubblici ministeri. I capi sono più anziani, stanno stare al mondo, sono gente in carriera e magari prima di chiedere l'arresto di qualcuno o l'intercettazione di qualcuno ci pensano due volte, mentre un sostituto procuratore molto spesso certi calcoli non li fa, bada soltanto al fatto che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Questo è stato il primo filtro, adesso abbiamo l'altro: il visto per qualunque provvedimento. Il sostituto deve continuamente andare dal suo capo e sperare che stia dalla sua parte; quante volte, in questi anni, abbiamo visto che i capi degli uffici stanno contro il magistrato e spesso stanno d'accordo con gli indagati, vedi quello che succedeva a Catanzaro con il povero De Magistris.

Questo segherà alla base un'altra serie innumerevole di possibilità di arrivare a risultati concreti perché voi sapete che, molto spesso, un'indagine va bene, spedita, fa il salto di qualità se si fanno le intercettazioni o se si arresta una persona, che quindi è più invogliata a collaborare con la giustizia che non se la lascia in libertà. Quando uno è in carcere ha tutto l'interesse a far venire meno le ragioni che l'hanno portato in carcere, quindi spesso comincia a collaborare perché così elimina alla radice il pericolo di inquinamento delle prove o il pericolo di ripetizione del reato che stanno alla base della sua carcerazione.

Magistrati nell'ombra
Un'altra norma che stanno predisponendo, questo per dirvi quanto sono precisi e certosini e chirurgici questa volta, proibisce ai giornalisti di nominare il magistrato che fa le indagini. Voi direte: sono pazzi. Sarà una vendetta nei confronti dei magistrati per evitare che si mettano in mostra, per evitare i malati di protagonismo. Assolutamente no, è una norma perfetta nel disegno che dicevamo: se il magistrato viene sabotato dai suoi capi o viene perseguitato dai politici – interrogazioni parlamentari, ispezioni ministeriali – o viene boicottato dai suoi colleghi, o viene isolato, chiamato o trasferito dal Consiglio Superiore su richiesta magari del ministro come è avvenuto per i tre PM di Salerno che avevano avuto il torto di perquisire il palagiustizia o il malagiustizia di Catanzaro, oggi i cittadini lo vengono a sapere. C'è ancora qualcuno che le racconta, queste storie: quante volte ne abbiamo parlato nel passaparola, nei blog, nei giornali dove io scrivo. Bene, non potremo più nominare, quindi voi non potrete più sentir nominare, i magistrati che fanno questa o quella indagine. Perché? Perché se uno non può più fare il nome del magistrato – chi fa il nome del magistrato, cioè il giornalista che dice “l'indagine tal dei tali è seguita da tal magistrato” facendo un'opera di informazione – se il magistrato lavora bene sappiamo come si chiama uno che lavora bene, se il magistrato lavora male, fa degli errori, delle cazzate, sappiamo che lavora male. E' informazione.

Il magistrato non potrà più essere nominato e se verrà nominato il giornalista che lo nomina rischia la galera fino a tre mesi o la multa fino a 10.000 euro. Per avere detto il nome di un magistrato vero che sta seguendo un'inchiesta vera. Galera per tre mesi e multa fino a 10.000 euro. Voi capite che siamo alla paranoia o c'è qualcosa. C'è qualcosa.

C'è che se io non posso più dirvi che la tale indagine la sta facendo il magistrato Tizio, quando poi magari gliela levano o quando mandano via Tizio voi non sapete nemmeno chi era Tizio e io non ve lo posso dire, perché non posso mai fare il suo nome collegato alla sua indagine. I magistrati diventeranno tutti uguali, il che significa che quelli incapaci, venduti, cialtroni, pelandroni, pavidi godranno dell'anonimato e potranno continuare a fare le loro porcherie lontano da occhi e orecchi indiscreti, e quelli bravi che per esse bravi, coraggiosi, efficienti, competenti vengono perseguitati non potranno più essere difesi. Che ruolo può svolgere la stampa nel controllare i magistrati se per la stampa i magistrati sono tutti uguali? Sono 10.000, come fanno a essere tutti uguali? Pensate a che cosa ha voluto dire negli anni Ottanta la campagna della stampa perbene contro il giudice Carnevale: diventò “l'ammazza sentenze” nell'immaginario collettivo perché ogni volta che gli arrivava un processo di mafia, soprattutto quelli istruiti a Palermo con tanta fatica da Falcone e Borsellino, annullava le condanne e rimandava indietro e si ricominciava da capo.

Alla fine, a furia di parlarne in articoli, libri, eccetera, prese la vergogna alla Cassazione e istituirono quel criterio di rotazione per cui non fu sempre e soltanto lui a presiedere i collegi dei processi di mafia. E non a caso, quando arrivò il maxiprocesso al gennaio del 1992, un altro presidente guidò quel collegio a posto di Carnevale e guarda caso proprio quella volta le condanne dei mafiosi furono confermate in via definitiva.

Perché non si può dire “la Cassazione ha annullato” ma “il collegio presieduto dal solito Carnevale ha annullato”, così chi di dovere se ne occupa, quando si comincia a vedere che uno si comporta sempre nello stesso modo nei confronti dei processi di mafia.

Allo stesso modo, quante volte i magistrati che rischiavano di essere cacciati non per i loro errori ma per i loro meriti – pensate a tutti i procedimenti disciplinari che hanno subito quelli di Mani Pulite, quelli di Palermo, o che continuano a subire magistrati meno importanti – la stampa interviene, segnala nome e cognome, spiega cosa sta succedendo e la gente capisce e magari ogni tanto qualcuno provvede anche nel senso giusto. Noi non potremo più raccontare quando un magistrato subisce un torto per i suoi meriti e viene magari scippato della sua inchiesta o trasferito per punire, ripeto, i suoi successi e non i suoi demeriti.

La norma in prestito dalla P2
Sapete chi aveva inventato questa regola? Licio Gelli. Il Piano di Rinascita Democratica è stato scritto nel 1976, stiamo parlando di un documento di 33 anni fa: già Gelli aveva capito che i suoi giudici amici era bene se poteva lavorare senza volto e senza nome, perché facevano delle tali porcate e insabbiamenti che era bene che nessuno uscisse allo scoperto altrimenti la denuncia avrebbe provocato delle sanzioni e li avrebbero mandati via. Invece, c'erano quelle teste calde che facevano le indagini sulle stragi, sulle prime tangentopoli, sui poteri occulti: quelli, se la gente li sentiva nominare, diventavano subito molto popolari e quindi avrebbero avuto uno scudo a protezione della loro attività proprio per grazia della loro reputazione, della loro faccia, della loro professionalità. Senza contare che i delinquenti di grosso calibro collaborano molto più volentieri con magistrati di cui si fidano: Buscetta voleva parlare con Falcone, mica con altri; Mutolo voleva parlare con Borsellino, mica con altri; i tangentari a Milano facevano la fila fuori dell'ufficio di Di Pietro, non di altri. Erano magistrati riconoscibili, celebri per la loro capacità, anche famosi se volete, e quindi il criminale che è un uomo di potere sente che può fidarsi di un qualcuno che dall'altra parte rappresenta il potere buono, ha le spalle larghe, sarà difficile sradicarlo, quindi è persona della quale si può tenere conto e farne un punto di riferimento.

Gelli aveva scritto che “occorreva per decreto una serie di norme urgenti per riformare la giustizia” e la seconda che aveva inserito in ordine di importanza era il “divieto di nominare sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari”. Gelli non era un cialtrone, Gelli e chi per lui – perché il Piano di Rinascita fu scritto da Gelli con i suoi consulenti sempre rimasti nell'ombra – aveva capito esattamente che questo del silenzio sui nomi dei magistrati era fondamentale per garantire un Paese dove formalmente la legge è uguale per tutti ma sotto sotto ci sono gli amici che sistemano le cose per gli amici degli amici.

La censura per magistrati e informazione
Altra norma: qual è una possibilità per un magistrato di difendersi? Quella di parlare, di raccontare non le sue indagini ma di denunciare quello che gli stanno facendo. Pensate la famosissima intervista di Borsellino a Lodato e Bolzoni, ai tempi Unità e Repubblica, che denunciava lo smantellamento del pool antimafia alla fine degli anni Ottanta con l'arrivo di Antonino Meli a capo dell'ufficio istruzione di Palermo al posto del favoritissimo Falcone. Borsellino disse: “stanno smembrando il pool antimafia”, quindi il magistrato ha enormi possibilità, quando è un uomo di prestigio, riconosciuto, di denunciare qualcosa che non va.

Bene, adesso c'è una serie infinita di limiti alle esternazioni dei magistrati: se i magistrati parlano senza parlare delle loro indagini, come è avvenuto per Forleo e De Magistris, li mandano via lo stesso con delle scuse. Se parlano di una loro indagine, senza rivelare dei segreti ma dando ai cittadini informazioni di cui hanno bisogno, l'indagine gli viene tolta. Questa è una norma che sta nella legge sulle intercettazioni. Pensate, arrestano il branco che ha incendiato quell'immigrato indiano vicino Roma, arrestano gli stupratori, i presunti stupratori o quelli che hanno confessato stupri come quelli degli ultimi giorni: di solito il magistrato e le forze di Polizia fanno una conferenza stampa dove danno ai giornali e alla cittadinanza informazioni. “State tranquilli, li abbiamo presi, le prove sono queste, hanno confessato, abbiamo trovato l'arma del delitto”. No, non potrà più fare: se il magistrato dice una parola anche per dare due o tre elementi di informazione all'opinione pubblica immediatamente perde l'inchiesta, che finisce ad un altro che deve ricominciare daccapo.

Se poi l'imputato eccepisce su questa cosa nei confronti del suo pubblico ministero non all'inizio ma durante il processo, ovviamente il PM deve andarsene e deve arrivarne un altro che non ha mai seguito quell'inchiesta e che quindi deve ricominciare tutto daccapo. Così i magistrati avranno paura anche soltanto a dire come si chiamano, declineranno il numero di matricola come i militari prigionieri in certi film. Infine, abbiamo la legge – ma già la conoscete perché ne parliamo dai tempi della legge Mastella – che dentro alla normativa sulle intercettazioni proibisce ai giornalisti di raccontare le indagini in corso.

Se passa questa legge, non potremo più raccontarvi che hanno arrestato gli stupratori di quel caso e di quell'altro caso, non vi potremo più raccontare che hanno arrestato il branco che ha bruciato quell'immigrato, non vi potremo più raccontare che Tizio, Caio, Sempronio sono stati presi, indagati o perquisiti, o hanno subito dei sequestri. Non potremo riportare le intercettazioni per spiegare come mai è finito in galera l'imprenditore delle cliniche Angelucci, il governatore Del Turco, i politici arrestati a Napoli insieme a Romeo.

Casi di cronaca normali come anche casi di delitti dei colletti bianchi noi non potremo più dire nulla sulle indagini in corso se non “arrestato un tizio”. Se dico che hanno arrestato un tizio posso dire che l'hanno arrestato per stupro, se dico che hanno arrestato uno per stupro non posso più dire il suo nome. O dico il reato o il nome di chi è accusato di averlo commesso, insomma non avrò più la possibilità di fare una cronaca completa in tempo reale per informare i cittadini di quello che succede.Così quando arresteranno un vostro vicino di casa per pedofilia, voi potrete sapere che è stato arrestato per pedofilia soltanto cinque o sei anni dopo, quando inizierà il processo. Voi capite che cambia la vita di una famiglia sapere che il vicino di casa è sospettato di pedofilia o non saperlo, perché per cinque anni si sta attenti dove vanno i bambini quando si gira lo sguardo dall'altra parte, se lo si sa.

Se non lo si sa non si sta attenti, ma naturalmente quando poi avremo casi di pedofilia, stupro o altro dovuti al fatto che la gente non ha preso le precauzioni perché non è stata adeguatamente informata, allora poi sapremo con chi dovremo prendercela.

Ricordiamocelo e passiamo parola. Buona giornata."

11 febbraio 2009

Guardiamo anche sotto il tappetto

Bestie dalle due parti
Ricordare i massacri delle foibe senza menzionare i crimini di guerra commessi dagli italiani in Jugoslavia è guardare la storia con un solo occhio. Così facendo si continua ad alimentare la divisione dei popoli e l’odio razziale ed ideologico. Sempre c’è uno che lancia la prima pietra. Nel nome della civiltà non possiamo essere orbi. La violenza chiama sempre la violenza.

Da Wikipedia
L'italianizzazione fascista
« Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. [...] I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani » (Benito Mussolini, discorso tenuto a Pola il 24 settembre 1920)

La situazione degli slavi si deteriorò con l'avvento al potere del fascismo, nel 1922. Fu infatti varata in tutta Italia una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali, che prevedeva l'italianizzazione di nomi e toponimi, la chiusura delle scuole slovene e croate e il divieto dell'uso della lingua straniera in pubblico. Simili politiche di assimilazione forzata erano all'epoca assai comuni, ed erano applicate, fra gli altri, anche da paesi democratici (come Francia e Regno Unito). Da notare che furono adottate dalla stessa Jugoslavia, dove si verificarono anche episodi di repressione violenta.

L'azione del governo fascista annullò l'autonomia culturale e linguistica di cui le popolazioni slave avevano ampiamente goduto durante la dominazione asburgica e incrementò i sentimenti di inimicizia nei confronti dell'Italia.

Le società segrete irredentiste slave, preesistenti allo scoppio della Grande Guerra, si fusero in gruppi più grandi, a carattere nazionalista e comunista, come la Borba e il TIGR, che si resero responsabili di numerosi attacchi a militari, civili e infrastrutture italiane. Alcuni elementi di queste società segrete furono catturati dalla polizia italiana e condannati a morte dal tribunale speciale per terrorismo dinamitardo.

La repressione politica e le istruzioni militari nel regno di Jugoslavia
Dai documenti redatti dall'Alto Commissario Emilio Grazioli, ma anche da quelli dei generali Roatta, Robotti e Gambara, emerge un conflitto che non si limita alla repressione contro il Fronte di Liberazione, ma che parte da una diversa visione politica del rapporto tra vincitori e vinti, tra razza dominatrice e popolazione assoggettata: quindi marcatamente razzista.
Secondo il generale Orlando: « ... è necessario eliminare: tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici in genere (A.C., Questura, Tribunale, Finanza ecc.), tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti, ... i parroci, ... gli operai, ... gli ex-militari italiani, che si sono trasferiti dalla Venezia Giulia dopo la data suddetta. » (gen. Orlando)

Orlando, intende l'eliminazione della massa attraverso la deportazione di migliaia di uomini nei campi di concentramento, che i comandi militari hanno aperto in Italia e in Dalmazia per sloveni e croati.

Viene anche adottata la politica dell'affamamento e della rapina, praticata dai comandanti italiani, tra gli altri il gen. Danioni che progetta di: « Procedere alla requisizione dei raccolti lasciando ad ogni singolo proprietario il puro necessario per non morire di fame. »

Mario Roatta propone inoltre la deportazione: "di tutti i disoccupati e degli studenti per farne unità di lavoratori".

Inoltre viene condotta una repressione contro gli intellettuali (docenti e studenti dall'università alle scuole inferiori) essendo considerati la colonna portante del movimento partigiano.

L'11 luglio 1942 Mario Robotti scrive a Emilio Grazioli dopo le ennesime "operazioni di rastrellamento ed epurazione politica", effettuate dal 24 giugno al 1 luglio a Lubiana e nella provincia è stata attuata la deportazione nei campi di più di 5 000 uomini (tra i 16 e i 50 anni); mentre il comandante dell'XI Corpo d'Armata lamenta che: « ...il mancato rastrellamento di donne, specialmente insegnanti di scuole medie ed elementari, che hanno notoriamente svolto e tuttora svolgono attiva opera di propaganda comunista e di assistenza ai partigiani, ha prodotto cattiva impressione. »

Nel corso di una riunione con i vertici delle Forze armate di Roma e della II Armata, tenuta a Gorizia il 31 luglio 1942, Mussolini approva le analisi e le decisioni di Roatta: « Come avete detto è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese ed il prestigio delle forze armate ... Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze ... Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni. »

I campi di concentramento
La scelta di costituire campi di concentramento per i civili viene concepita dapprima per neutralizzare gli elementi ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico; ma successivamente le deportazioni crescono, coinvolgendo quote sempre più vaste di popolazione soprattutto quella rurale.

In un vertice tenuto a Fiume il 23 maggio 1942, Roatta annuncia l'appoggio di Mussolini alla linea dura dei generali: « Anche il Duce ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e di applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario... Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente - anche 20-30 000 persone. »

A partire dal luglio 1942 le divisioni italiane, con grandi operazioni di rastrellamento alla caccia delle formazioni partigiane, svuotano il territorio in cui queste sono più presenti, deportando la popolazione dei villaggi in campi di concentramento costituiti appositamente. Si tratta soprattutto di donne, bambini ed anziani, poiché gli "uomini validi" fuggono nei boschi alla vista dei reparti italiani, per evitare di essere presi come ostaggi e fucilati nelle quotidiane rappresaglie decretate dai tribunali militari di guerra.

Ma dai documenti degli stessi generali italiani emerge anche la determinazione per cui le rappresaglie contro i civili devono essere un'arma di pressione contro i partigiani del Fronte di Liberazione, che tengono in scacco una grossa parte dell'esercito italiano.

Tra l'estate del 1942 e quella del 1943 furono attivi sette campi di concentramento per civili sotto il controllo della II Armata (che aveva la competenza su Slovenia e Dalmazia).

Stabilire oggi il numero dei deportati risulta assai difficile, sia per la frammentarietà degli archivi consultabili, sia perché le stesse autorità italiane scrivevano di non avere un quadro delle situazione. Secondo alcune stime si conterebbero almeno 20 000 civili sloveni internati. Mentre un documento del Ministero degli interni italiano, databile alla fine dell'agosto 1942, indica un complesso di 50 mila elementi circa, sgombrati dai territori della frontiera orientale in seguito alle operazioni di polizia in corso, di cui la metà donne e bambini.

La causa principale delle morti nei campi era la fame e il freddo. Già nel maggio 1942 una lettera di un dirigente cattolico di Lubiana segnala alle autorità militari italiane, che "nel campo di concentramento di Gonars ... gli internati soffrono atrocemente la fame". Dal rapporto destinato ai comandi militari e redatto da un ufficiale medico, emerge un livello di alimentazione insufficiente ed una situazione igienica inadeguata. Lo stesso afferma che la insufficienza alimentare si moltiplica per il freddo e la dispersione di calore corporeo vivendo i civili sotto tende, con abiti estivi e coperte insufficienti.

Secondo le autorità italiane, fino al 19 novembre 1942, ad Arbe i morti erano stati 289 (di cui 62 bambini).
Significative a questo proposito, sono le affermazioni del generale Gambara, in data 17/12/1942 : « Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. L'individuo malato sta tranquillo [...] Le condizioni da deperimento dei liberati di Arbe sono veramente notevoli - ma Supersloda da tempo sta migliorando le condizioni del campo. C'è da ritenere che l'inconveniente sia praticamente eliminato" »

Della gravità della situazione nei campi scrivono anche ufficiali dei Carabinieri Reali nei loro rapporti ai comandi: « ... nei campi di concentramento la vita è davvero grama e fiacca il corpo e lo spirito. Particolarmente nel campo di Arbe, le condizioni di alloggiamento e del vitto sono quasi inumane: viene riferito che frequenti sono i casi di morte, gravi e frequentissime le malattie" e inoltre richiamano "vari casi di decesso provocati dalla scarsità del vitto e da malattie epidemiche diffusesi per deficienza di misure sanitarie. »

I campi di concentramento rimasero attivi fino al disfacimento dell'esercito italiano, avvenuto in seguito dell'armistizio dell'8 settembre 1943 e la conseguente cessazione delle ostilità da parte delle truppe monarchiche italiane verso le forze di liberazione jugoslave.

Inchieste sui criminali di guerra italiani
I crimini di guerra italiani furono sostanzialmente impuniti a causa della posizione politica assunta dall'Italia dopo l' 8 settembre 1943, e dopo la guerra a causa della così detta "amnistia Togliatti" intervenuta il 22 giugno 1946, sia perché il 18 settembre 1953 il governo Pella approvò l'indulto e l'amnistia proposta dal guardasigilli Antonio Azara per i tutti i reati politici commessi entro il 18 giugno 1948, a cui si aggiunse quella del 4 giugno 1966.

In particolare venivano accusati sia il generale Pietro Badoglio che Rodolfo Graziani, i quali non subirono mai un processo. Gli unici processi effettuati riguardavano crimini commessi in Italia contro italiani, ma mai furono aperti processi per crimini commessi all'estero. Le nazioni colpite dall'occupazione italiana, nonostante gli accordi internazionali prevedessero la loro estradizione cercarono di ottenere l'estradizione di svariati dirigenti militari, senza alcun successo.

Massacri delle foibe
Con il termine "foibe" si intendono le uccisioni di migliaia di cittadini italiani compiute per motivi etnici-politici alla fine (e durante) la seconda guerra mondiale in Venezia Giulia e Dalmazia, per lo più compiuti dall'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia. In misura minore e con diverse motivazioni furono coinvolti nei massacri anche cittadini italiani di nazionalità slovena e croata, oltre che alcuni cittadini di nazionalità tedesca e ungherese residenti a Fiume.

Il nome deriva dagli inghiottitoi di natura carsica dove furono rinvenuti i cadaveri di centinaia di vittime e che localmente sono chiamati "foibe". Per estensione i termini "foibe" e il neologismo "infoibare" sono in seguito diventati sinonimi degli eccidi, che furono in realtà perpetrati con diverse modalità.

L'invasione della Iugoslavia
Nell'aprile del 1941 l'Italia partecipò all'attacco dell'Asse contro la Iugoslavia, in seguito al colpo di stato che aveva spodestato il governo di Belgrado il 25 marzo 1941 instaurando una giunta filo-inglese e filo-sovietica. L'Italia si annesse una grande parte della Slovenia (dove fu costituita la provincia di Lubiana), la Dalmazia settentrionale e le Bocche di Cattaro.

Inizialmente tranquilla per gli italiani, la situazione nei territori ex iugoslavi annessi, divenne incandescente dopo l'aggressione tedesca all'URSS il 22 giugno 1941, allorché le cellule comuniste "dormienti" in tutta Europa vennero scatenate da Stalin contro l'ex alleato dell'Asse. In tutta la Jugoslavia, allora, iniziò una feroce guerriglia - ben presto degenerata in guerra civile - che coinvolse le truppe italiane in un crescendo di violenze e atrocità reciproche. La repressione italiana fu pesante e in molti casi furono commessi crimini di guerra.

L'annessione unilaterale da parte dell'Italia di parte dei territori già jugoslavi provocò inoltre un ulteriore inasprimento delle relazioni fra slavi e italiani. Nella provincia di Lubiana si provò ad instaurare un regime d'occupazione morbido e rispettoso delle peculiarità locali. Tuttavia l'insorgere di un movimento di resistenza, provocò la nascita di una violenta repressione.

In Dalmazia venne da subito instaurata una politica di italianizzazione forzata, spesso ottusa e maldestra, che esasperò i rapporti con la popolazione, suscitando la riprovazione degli stessi dalmati italiani.
Per reprimere la guerriglia furono istituiti campi di concentramento in cui furono reclusi elementi slavi giudicati "sediziosi". Tra questi si ricordano quelli di Arbe e di Gonars.
Il massacro

1943: armistizio e prime esecuzioni
L'8 settembre 1943 con l'armistizio tra Italia e Alleati, si verifica il collasso del Regio Esercito. Il 9 settembre le truppe tedesche entrarono a Trieste. In questo periodo (13 settembre 1943) si proclamò il "distacco" dell'Istria dall'Italia e l'annessione alla Jugoslavia. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria.

Parallelamente al consolidamento del controllo germanico sul capoluogo giuliano, su Pola e su Fiume, i partigiani occuparono buona parte della penisola istriana, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Improvvisati tribunali popolari, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, ma anche di persone estranee al partito ma rappresentanti lo stato italiano, i quali vennero arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altri fascisti italiani e croati. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita.

In Dalmazia, il 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato ed in altri centri entravano i partigiani. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie ed alcuni civili.

Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia, si aggirano sulle 600-800 persone. Alcune delle uccisioni sono restate impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste sono Norma Cossetto, don Angelo Tarticchio, le tre sorelle Radecchi (Fosca di 17 anni, Caterina di 19, Albina di 21 anni e in gravidanza). Norma Cossetto ha ricevuto il riconoscimento della medaglia d'oro al valor civile.

I ritrovamenti dell'autunno 1943
Con l'espulsione dei partigiani divenne possibile eseguire varie ispezioni nella foibe, dove furono rinvenuti i resti di numerosi cadaveri. Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse l'indagini da ottobre a dicembre del 1943.

La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu pertanto in questo periodo che il concetto di foiba fu associato agli eccidi. Paradossalmente, l'enfasi data ai ritrovamenti alimentò il mito del "barbaro slavo", contribuendo a creare il clima di terrore che favorì il successivo esodo.

Il massacro delle foibe fu allo stesso tempo una conseguenza dei rancori sviluppatisi fra contrapposte nazionalità e uno strumento di repressione violenta operato da un regime antidemocratico.

Tale punto di vista è condiviso anche dalla "Commissione storico-culturale italo-slovena", istituita nel 1993. Nella relazione finale, edita nel 2000, si afferma infatti: « Paragrafo 11 - Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani. »

“Jacquerie”
I massacri del 1943 e del 1945 ebbero una componente di insofferenza nei confronti del regime fascista e nei confronti dell’Italia in quanto tale. Quest'ultima aveva le sue radici nelle vecchie contrapposizioni nazionali ed all'italianizzazione fascista (che tuttavia le esacerbò). I rapporti degenerarono ulteriormente a causa dell'invasione della Jugoslavia.

Parte dei massacri avvennero quindi nel contesto di una "jacquerie", ossia di un'insurrezione spontanea dei ceti popolari jugoslavi, esasperati dalla guerra e dalla repressione e in cui molti colsero anche l'opportunità di portare avanti vendette personali. Questa jacquerie si rivolse non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali. Nell'immaginario popolare jugoslavo dell'epoca si tendeva, infatti, a far coincidere i concetti di "italiano" e di "fascista"; uno stereotipo che ancor oggi è diffuso.

6 febbraio 2009

L'ombelico sporco

In un Paese che si guarda costantemente l'ombelico è bene sentir parlare un giornalista che analizza con dettaglio la nostra realtà, e ci mostra come non siamo i migliori del mondo ma nemmeno i migliori di questa piccola parte del pianeta.
L’Italia contro se stessa
Pubblicato giovedì 4 dicembre 2008 in USA - Alexander Stille
[The New York Review of Books]

Gianni Alemanno, con un passato neofascista alle spalle, è stato eletto sindaco di Roma a fine aprile, due settimane dopo il ritorno al potere di Silvio Berlusconi e della sua coalizione con una consistente maggioranza ottenuta alle elezioni politiche nazionali. In seguito la stampa internazionale ha dato molta importanza alla folla di giovani neofascisti che ha fatto il saluto romano sui gradini del Campidoglio. Ma forse ancor più importante è stata la contemporanea parata di tassisti romani che suonavano trionfalmente il clacson, in giubilo non tanto per l’elezione dell’ex “bullo di quartiere” quanto per la sconfitta dell’amministrazione di centro-sinistra che aveva proposto di ampliare il numero delle licenze dei taxi. E’ risaputo che i taxi sono difficili da trovare a Roma. Il tentativo di migliorare i trasporti in città però andava contro gli interessi dei possessori delle licenze, che per i tassisti rappresentano un qualcosa di sicuro in un mondo incerto.

La celebrazione dei tassisti ci mostra un paese in conflitto con se stesso, paralizzato, malfunzionante, arrabbiato, pauroso, intensamente insoddisfatto. ma che non vuole intraprendere la via di un qualsivoglia cambiamento che minaccerebbe il delicato tessuto di privilegi di questo o quel gruppo protetto.

Un paese come l’Italia che è allo stremo a causa di un’imposizione fiscale pesante, ma che rimane in silenzio quando Berlusconi blocca la vendita della compagnia aerea nazionale, l’Alitalia, nonostante questa versi, come contribuente, in stato finanziario addirittura emorragico; un paese che detesta il governo, ma che si aspetta di avere un’educazione e un’assistenza sanitaria gratuita e che cerca vantaggi dalle opportunità offerte da un vasto sistema di patronato politico; un paese che si aggrappa al suo alto standard di vita e al suo welfare generoso, ma che fantastica di cacciare milioni di lavoratori stranieri che oggi producono qualcosa come il 10% del Prodotto Interno Lordo. La presenza lavorativa dei lavoratori stranieri è tuttavia la sola realistica speranza per il mantenimento del sistema pensionistico italiano in un paese in cui la popolazione diventa di anno in anno sempre più anziana.

Che gli italiani potessero rieleggere Silvio Berlusconi precedente Presidente del Consiglio, bocciato solo due anni prima, non è così sorprendente come potrebbe sembrare. Il governo di centro-sinistra di Romano Prodi si è insediato nel 2006 dopo che l’Italia aveva vissuto cinque anni di crescita economica e produttiva quasi pari a zero. La continua autocelebrazione di Berlusconi andava di pari passo con la miriade di conflitti di interesse in cui è coinvolto come persona più ricca d’Italia e più grande proprietario di media, nonché più famoso imputato per reati di corruzione. Paralizzato il paese, erano in molti a ritenere che, con Berlusconi fuori gioco, l’economia sarebbe ripartita. Tuttavia, dal governo Prodi, che approdava nuovamente al potere con una sottile maggioranza di appena un voto al senato, ed una coalizione litigiosa ed eterodossa, era difficile aspettarsi di meglio. Non appena Prodi tentava di introdurre le riforme nell’economia, i membri di parte comunista della sua coalizione minacciavano di fare una rivolta. Poco tempo dopo, in risposta al tentativo di far passare una legge che permettesse le unioni civili di coppie gay (e non gay), il partito cattolico alla sua destra si ammutinava.

Una delle poche cose che Prodi è riuscito a far passare è stata un’amnistia per i criminali, che era stata fortemente voluta da Berlusconi e che era stata disegnata in modo abbastanza chiaro per mantenere fuori di prigione Cesare Previti, l’importante avvocato d’azienda di Berlusconi, che era stato imputato per tangenti ai giudici. E così dopo poco tempo dall’entrata in carica, il pubblico italiano ha dovuto assistere allo spettacolo poco edificante di vedere liberati 26.000 criminali, molti dei quali sono rapidamente tornati a rubare, stuprare e uccidere, mentre un gruppo di criminali con i colletti bianchi, come Previti, è stato messo nella condizione di poter tornare a godere dei propri guadagni illeciti.

In modo simile, il governo Prodi ha fatto passare un’altra legge, nuovamente con l’aiuto entusiasta di Berlusconi e della destra, per rendere illegale il reperimento e l’uso da parte dei Pubblici Ministeri di prove contro membri del Parlamento per mezzo di intercettazioni telefoniche della polizia. In altre parole, se la polizia seguisse le tracce di un pericoloso criminale e a questi capiti di chiamare il suo buon amico in parlamento, gli investigatori non potrebbero indagare sulle malefatte del potenziale criminale in parlamento, né tantomeno usare le intercettazioni contro di lui.

In questo modo un’amministrazione che aveva promesso un governo alternativo e pulito rispetto a quello precedente di Berlusconi, è parsa all’elettorato come non più decisa del precedente nell’affrontare la corruzione, il sistema clientelare e l’infiltrazione della mafia nelle istituzioni. Le montagne di spazzatura seminate qua e là a Napoli e dintorni hanno continuato ad accumularsi sotto il governo Prodi così come sotto il governo Berlusconi. Ma ancor più importante per gli elettori, l’economia manteneva la situazione di stallo, unita ad un ancora maggiore instabilità politica.

Disillusi, molti elettori italiani sono arrivati alla conclusione che c’era poca differenza tra i politici di sinistra e quelli di destra e che presi insieme erano semplicemente una casta corrotta, che da sé si perpetuava. Non si tratta solo di godere di straordinari privilegi e salari assurdamente alti, i politici rappresentano anche un vistoso buco per le risorse pubbliche. Il libro “La casta” riporta un tale stato delle cose. In cima alle classifiche di vendita tra i saggi per gran parte dell’anno, nel libro viene ci si chiede: perché l’Italia, con 1/5 della popolazione degli Stati Uniti, debba avere in Parlamento il doppio dei membri dei rappresentanti del Congresso americano? E perché i politici devono guadagnare il doppio, girare in automobili con autista, avere telefonini, viaggi in aereo e treno gratuiti, ottenere una pensione a vita anche dopo solo due mandati, oltretutto se molti di loro mantengono attività di lucro private e nemmeno si presentano sul posto di lavoro quando dovuto?

La rabbia dell’elettorato italiano va molto oltre la delusione verso il governo Prodi che non ha pienamente meritato una tale, dura condanna pubblica. I problemi italiani, purtroppo, sono molto più profondi, più strutturali, e non facili da risolvere.

Dalla fine della II Guerra Mondiale fino al 1990 l’economia italiana è stata una della più forti del mondo, non molto inferiore a quelle di Germania Ovest e Giappone, crescendo ad una media del circa 5% negli anni ‘50 e ‘60 e con un salutare 3% negli anni ‘70 e ‘80, disseminando prosperità, alfabetizzazione ed un generoso sistema di servizi e benefici in una terra come l’Italia con una lunga storia di avversità e miseria. Per gli studenti di politica contemporanea ciò offriva un affascinante paradosso. L’Italia restituiva l’immagine di un paese con un terribile sistema politico caratterizzato da un continuo vai e vieni di governi insieme a scandali, crisi di governo, livelli alti di corruzione, una burocrazia dispendiosa e inefficiente. Eppure, anno dopo anno, l’economia continuava a crescere. Nel 1989 il prodotto interno lordo dell’Italia era quasi uguale a quello della Gran Bretagna.

Ma, negli ultimi 15 anni, questa combinazione precaria - di corruzione, malgoverno e crescita economica alta - si è bloccata. Il prodotto interno lordo è cresciuto ad una media dell’1,1% rispetto al 2,3% del Regno Unito, al 2,8% della Spagna, all’1,7% della media dell’intera UE. L’economia italiana, come conseguenza, è ora più piccola di quella inglese del 20% e, secondo recenti calcoli, è stata superata da quella spagnola. Le entrate disponibili sono state praticamente stagnate negli ultimi 15 anni, e il disequilibrio nei redditi è il più alto della UE, dal cui dato si ricava che lo standard di vita di molti è nei fatti diminuito.

Due libri recentemente pubblicati offrono diagnosi radicalmente differenti l’una dall’altra riguardo a cosa starebbe non funzionando. Il primo “La deriva: perché l’Italia rischia il naufragio” del giornalista Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, è il seguito del loro best-seller “La casta”. Si tratta di una graffiante accusa nei confronti del sistema politico italiano e dei suoi devastanti effetti sul Paese. Il secondo “La paura e la speranza” è opera del Ministro delle Finanze di Berlusconi, Giulio Tremonti.

Più che in qualsiasi altro Paese in Europa, argomentano Stella e Rizzo piuttosto persuasivamente, l’Italia ha un’elite prettamente maschile che sta invecchiando, che soffoca iniziative e cambiamenti in modo da perpetuare il proprio potere. Circa il 60% dei politici e dei sindacalisti italiani ha più di 70 anni. In Francia, al contrario, la percentuale è del 20%. Nei Paesi scandinavi circa del 38%. L’Italia ha anche i livelli più bassi di partecipazione femminile in politica e nei posti di lavoro fra i paesi europei. Quando i politici affermati non riescono a vincere le elezioni, riescono a farsi riciclare nelle posizioni di clientele locali, oppure nella sanità o nel parlamento europeo. Il risultato è una deprimente mancanza di ricambio nelle istituzioni italiane.

Del resto, ciò non è vero solo in politica. Le Università, per esempio, che dovrebbero essere una parte essenziale nell’economia dell’informazione in quanto centri di innovazione, ricerca e meritocrazia, sono invece dei bastioni del privilegio e delle clientele in cui le decisioni riguardanti le assunzioni non sono aperte e corrette, ma sono continuamente truccate a favore di amici, relazioni o portaborse dei cosiddetti “baroni” (docenti ordinari universitari).

Stella e Rizzo raccontano la storia del sistema delle assunzioni truccato nella facoltà di medicina dell’Università di Napoli, in cui i baroni locali falsificarono documenti in modo da garantire che i loro candidati favoriti, incluso il figlio del barone-capo, vincessero quello che si presumeva essere un bando di concorso aperto a tutti. Ma nonostante siano stati per l’ennesima volta ritenuti colpevoli, dopo una serie di contese legali durata 18 anni, i querelati hanno continuato a tenere il proprio posto che avevano vinto illegalmente.

Addirittura dopo che i docenti malfattori hanno perso la causa all’ultimo grado di appello, il Ministero dell’Istruzione ha deciso di lasciar loro gli incarichi con un un atto scritto in perfetto burocratese: “Annullare un atto ministeriale non può essere eseguito in base alla sola necessità di restaurare la legalità”. La traduzione è: “Solo perché qualcuno è sottoqualificato ed è stato condannato non significa che non possa mantenere la sua cattedra universitaria”. La decisione, presa da Antonello Masia, direttore generale del Ministero, era abbastanza prevedibile da parte dei membri della casta per proteggere se stessi. Masia ha prestato servizio per 37 anni e ripete con piacere questa frase: “I ministri vanno e vengono, ma il direttore generale rimane”, vero e proprio mantra della burocrazia permanente che vede se stessa come immune dal controllo politico e dall’opinione pubblica.

In questo sistema, i più brillanti e ambiziosi studenti, che hanno vinto borse di studio nelle maggiori Università negli USA, Gran Bretagna ed altrove, sono spesso trattati come se gli anni spesi all’estero siano da buttare dal momento che non sono rimasti in Italia aspettando in fila per ottenere l’appoggio dei baroni. Il risultato è stato una gran fuga di cervelli fuori dell’Italia. Università americane, francesi, inglesi, laboratori di ricerca, ospedali, compagnie sono pieni di giovani talenti italiani che si sono scocciati dell’Italia e l’hanno lasciata.

Sempre più si ritrova in Italia una burocrazia egoista che mantiene il suo potere attraverso una giungla di regole e regolamenti ultracomplicati che rendono qualsiasi cosa estremamente difficoltosa, che fanno consumare tempo, e sono costose. Aprire un’attività in Italia in media costa 5.012 euro per i permessi necessari, e richiede 62 giorni in cui bisogna superare 16 diversi ostacoli burocratici. Nel Regno Unito costa 381 euro, 4 giorni e 5 procedure. Negli USA, costa 167 euro, 4 giorni e 4 procedure.

Portare a termine un grosso incarico pubblico in Italia (ad esempio della cifra di 50 milioni di euro o più) richiede una media di 2.137 giorni che significa quasi 6 anni. In Spagna ci sono voluti solo 3 anni per estendere la metropolitana di Madrid di circa 56 km con 8 stazioni di cambio e 28 stazioni ordinarie. Creare la rete dell’Alta Velocità in Italia costa più di 4 volte quanto speso in Francia o Spagna e quella esistente è lenta. Un treno che va da Madrid a Barcellona ci mette solo 2 ore e 20 minuti, mentre a viaggiare tra Milano e Roma si impiega il doppio del tempo, anche se la distanza è leggermente inferiore.

Stella e Rizzo sono sono nel giusto quando percepiscono che un tale fallimento sia pervasivo tanto da creare una potente sinergia negativa in quasi tutti gli aspetti della vita italiana. La paralisi del sistema giudiziario mette in pericolo il ruolo di base della legge, uno dei pilastri del funzionamento del sistema economico. La lunghezza media per risolvere una vertenza su di un contratto non rispettato è di 1.210 giorni (quasi 4 anni), mentre in Spagna (il secondo peggiore Paese in lista) è di soli 515 giorni; in Francia è di 331 giorni; in Gran Bretagna di 217 giorni. In Italia ci si mette la durata astronomica di 90 mesi (quasi 8 anni) per impedire il riscatto di un’ipoteca di una persona che non paga più il mutuo. In Spagna dura mediamente 11 mesi, in Danimarca 6.

Un sistema così lento e farraginoso sembrerebbe pura follia, ma ci sono delle ragioni che lo spiegano. La moltiplicazione delle procedure, dei permessi, delle regole e delle strettoie burocratiche crea un numero straordinario di punti di pressione nei quali l’amministrazione può controllare, eliminare, ritardare o accelerare un progetto. Ognuno di questi è per un burocrate o un politico un’opportunità in più per esercitare il potere e sfruttare il sistema di clientele per la concessione e richiesta di favori. Un’autostrada che costa il doppio di quanto stabilito in partenza ha i suoi vantaggi (non solo per i politici che ottengono tangenti, ma per tutti coloro che vi lavorano attorno). Non ha gli stessi vantaggi il resto del paese, che deve avere a che fare con infrastrutture di second’ordine - da porti, autostrade e ferrovie maltenuti o malfunzionanti, a cellulari ed elettricità molto cari - uniti ad una pesante imposizione fiscale, servizi scarsi ed un sistema di promozione che è diventato l’esatto opposto della meritocrazia. Non sorprende che l’Italia a partire dal 2001 sia scivolata dal 24esimo al 41esimo posto nella lista dell’indice di competizione globale (GCI).

Non è una pura questione di corruzione istituzionalizzata. Purtroppo, il problema va ancora più in profondità. In un capitolo Stella e Rizzo parlano della tendenza di ogni gruppo italiano a formare un “ordine” o “gilda”; la lealtà ad un gruppo spesso vince ogni senso di bene comune. Perciò il direttore generale del Ministero dell’Istruzione che rifiuta di licenziare i professori che sono entrati in modo irregolare nell’Università si comporta come se non stesse compiendo un atto di corruzione al livello personale, ma agisce per fedeltà ad una gilda, non favorendone pertanto un’altra, ad esempio, in tal caso quella dei magistrati, che potrebbe interferire negli interessi di quella propria.

A causa delle differenti ideologie ci sono gruppi di pressione di tutti i tipi che cospirano per rendere l’efficienza impossibile. Come molte altre nazioni europee l’Italia ha delle risorse energetiche naturali molto scarse e deve importare quasi tutto il petrolio ed il gas (un ulteriore peso sull’economia). Altri paesi europei hanno investito seriamente nell’energia alternativa. La Spagna ottiene il 7,5% della sua energia dall’eolico, mentre l’Italia non produce che l’1%. La Germania utilizza 75 volte di più l’energia solare rispetto all’Italia sebbene quest’ultima abbia ovviamente molta più energia solare da sfruttare. La Francia genera il 68% della propria elettricità dal nucleare, che l’Italia non possiede affatto. L’Italia, semplicemente, non ha una politica energetica.

Mentre Stella e Rizzo restituiscono una descrizione del problema tanto convincente quanto sconvolgente, essi non spiegano perché le cose sono peggiorate. Il sistema italiano non era di certo un modello di efficienza e virtù tra la fine della II Guerra Mondiale e gli anni ’80, durante i quali il paese comunque era tra quelli che mostravano una crescita tra le più veloci del mondo. Cosa è cambiato che ha reso il sistema italiano quel peso morto che dà l’impressione di essere diventato?

Il declino economico dell’Italia è divenuto visibile negli anni ’90, un periodo che coincideva con l’unificazione economica dell’Europa, l’adozione dell’euro e lo smantellamento di un regime tariffario che proteggeva molte merci italiane dalla competizione straniera, specialmente dall’Asia. L’Italia è stata colpita più fortemente che altri paesi da tali cambiamenti. In un regime di mercato vecchio e protetto pesantemente, la connessione con l’establishment politico conferiva vantaggi notevoli: il governo italiano comprava macchine Fiat e computer Olivetti, sussidiava la costruzione di nuovi stabilimenti e teneva fuori la competizione giapponese. Durante periodi di rallentamento economico, la lira veniva svalutata per rendere più economici i prodotti italiani e quindi più competitivi all’estero. Ma dopo il 1992, gli italiani iniziarono a competere all’improvviso con il mondo intero e il governo italiano, unendosi al regime monetario europeo, aveva perso il suo potere di utilizzare la svalutazione della lira quando le cose andavano male.

Più che in altri Paesi europei l’Italia è stata sensibile alla competizione da parte delle economie asiatiche a basso costo. L’economia italiana è composta da uno straordinario tessuto di aziende a conduzione familiare che producono articoli nel campo del tessile, dell’abbigliamento, delle scarpe, dei mobili, che generalmente non richiedono grandi quantità di capitale da investire e di tecnologia da utilizzare e che pertanto sono vulnerabili a concorrenti che pagano salari bassi. L’Italia è presente in misura minima nel campo dell’industria basata sulla conoscenza (biotecnologie, finanza, aerospaziale, alta velocità, hardware e software dei computer) che è meno condizionata dai mutamenti del mercato rispetto alle economie a basso salario. Sotto questo aspetto, la miopia dei leader politici italiani porta con sé più d’una responsabilità. Il Paese investe molto meno degli altri paesi europei nella ricerca e nella tecnologia; l’Italia offre i dati peggiori del continente per quanto riguarda i ricercatori scientifici, la percentuale di laureati universitari e il numero di brevetti rilasciati ogni anno.

La corruzione e l’inefficienza pare essere diventata ancora peggio negli ultimi anni. Negli anni ’50, Stella e Rizzo scrivono, il paese ha costruito in 8 anni la sua autostrada principale, l’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli. Ma riparare la più breve autostrada Salerno-Reggio Calabria, un progetto non ancora finito, ha già richiesto più di 25 anni ed è costato 5 volte di più per chilometro rispetto alla costruzione dell’Autostrada del Sole.

Un altro problema che ha caratterizzato il periodo dopoguerra è stato l’effetto virtuale di un solo partito al potere. Il dominio ininterrotto della Democrazia Cristiana e la serie di partiti satellite, dal 1946 al 1993, sono serviti da terreno fertile per la corruzione, mentre i governi si sono accollati debiti che solo ora appaiono gravosi. Nonostante il proprio dominio, la DC era abbastanza cooperativa in questi anni con l’opposizione politica, specialmente con il Partito Comunista Italiano. I movimenti di protesta della fine degli anni ’60 e ’70 spinsero la DC ad allargare il welfare italiano in modo da affievolire la tensione sociale, creando molti dei sistemi che sono ora cresciuti incontrollatamente. Gli altri paesi europei hanno creato programmi sociali simili, ma il debito italiano è oggi il doppio della media europea. Interessando più del 100% del PIL, il debito pubblico rende il governo poco propenso a tagliare le tasse o a spendere utilmente per educazione, ricerca e sviluppo.

Alcune industrie hanno in passato istituito ciò che si chiamano le “baby-pensioni”, che permettono a centinaia di migliaia di italiani di andare in pensione con quasi il massimo nonostante abbiano ancora tra i 30 e i 50 anni. L’Italia ha quasi mezzo milione di persone che sono andate in pensione secondo questa modalità e che lo sono da 40 anni. E’ in gran parte per coprire tali costi che si è creato questo enorme buco di debiti che inghiotte il 10% del PIL.

A danneggiare l’Italia è stato in particolar modo l’influenza del leader del Partito Socialista Italiano, Bettino Craxi, che era determinato ad ottenere accesso al denaro e al patronato politico per espandere il potere del suo piccolo partito. “Porta dentro voti e soldi” Craxi disse ad uno dei suoi uomini nominandolo all’assemblea della compagnia nazionale dell’elettricità (ENEL). Ansioso di diventare un grande partito capace di competere con la DC e con i comunisti, Craxi e i suoi uomini sono riusciti a codificare la corruzione per un sistema ad un livello e ad un tipo di rapacità che era di fatto nuova.

Il risultato fu una corsa sfrenata nella corruzione che progressivamente è uscita fuori controllo: il sistema giudiziario era lento e inefficiente, i parlamentari godevano di impunità da indagini, i politici non andavano mai realmente in prigione. I politici che rubavano avanzavano più rapidamente. Craxi stesso è divenuto il ministro italiano che ha servito più a lungo la carica di Presidente del Consiglio (1983-1987) prima di Berlusconi. E’ fuggito poi in Tunisia nel 1994, una volta divenuto chiaro che le condanne lo avrebbero portato in galera.

La lunga permanenza al potere dello stesso gruppo di partiti in Italia significa, più che altrove, che il sistema politico non è stato ripulito e che i partiti di governo sono in grado di orchestrare un sistema dove i politici mettevano le dita sui punti nodali dell’economia. Ogni progetto, dalla costruzione di un ponte all’apertura di un negozio, all’aggiunta di un bagno in casa, dipende da un amico al potere.

Oltretutto, il potere del crimine organizzato in Italia è molto maggiore rispetto agli altri grandi stati europei, rappresentando circa il 7% del PIL, facendone quindi uno dei settori di affari più prolifici nel Paese. Nell’Italia meridionale, in cui il crimine organizzato è maggiormente radicato, si pilotano i contratti dei lavori pubblici, rallentando i progetti in modo da spremere lo Stato quanto più possibile e mettendo in fuga gli affari legali anche di investitori stranieri, che non vogliono essere soggetti a estorsione. In 8 delle 20 regioni italiane – l’intero Sud dell’Italia comprese Sicilia e Sardegna – non c’è praticamente nessun investimento di capitale straniero.

Non è quindi un caso che il maggiore vincitore delle recenti elezioni sia stata la Lega Nord, un partito di destra che ha indirizzato molta della sua rabbia verso il sistema di patronato dell’Italia meridionale e verso lo Stato centralizzato e corrotto che lo mantiene al potere. La domanda chiave della Lega è quella di un federalismo fiscale che permetterebbe alle comunità locali di mantenere una parte significativa delle entrate e di limitare massicciamente il flusso di soldi da nord a sud. Il partito della Lega ha raddoppiato i propri voti a livello nazionale (dal 4 all’8,2%), ottenendo più del 21% dei voti in Lombardia e più del 27% per cento in Veneto, le più alte percentuali in un sistema elettorale proporzionale con più partiti. Un elettorato arrabbiato ha scelto il partito italiano più arrabbiato.

Allo stesso modo, le elezioni di aprile hanno eliminato molti piccoli partiti del paese. Gli elettori sono sembrati volerli decisamente punire per aver ostacolato i lavori. Il Partito Comunista Italiano (Rifondazione Comunista), presente dall’inizio del secondo dopoguerra, è scomparso così come altri partiti della sinistra. Questi ultimi sono stati percepiti, non senza verità, come “partiti del no” determinati a bloccare qualsiasi iniziativa di riforma strutturale dell’Italia negli ultimi anni.

Le cose andranno meglio per gli italiani con il nuovo governo Berlusconi? C’è una profonda contraddizione nella sua coalizione che raggruppa la Lega Nord e il Popolo delle Libertà di Berlusconi, quest’ultima una fusione del suo vecchio partito, Forza Italia, ed un partito di destra, Alleanza Nazionale. I sostenitori della coalizione provengono da due aree molto differenti, il nord e il sud, ed è debole solo nella “cintura rossa” nel centro, che tradizionalmente votava sinistra. Ma nel nord, dove la Lega Nord è forte, gli elettori non si fidano dello Stato centrale e della sua dipendenza dalla corruzione e dal sistema di patronato mafioso; mentre nel sud, la base del potere di Berlusconi deriva precisamente da questo sistema con tutta la corruzione e i legami con la criminalità organizzata che lo caratterizzano.

Uno dei libri più divertenti e più di successo dell’anno sulle elezioni “Se li conosci li eviti” di Peter Gomez e Marco Travaglio, è una specie di almanacco dei peggiori candidati in lista per le elezioni lo scorso aprile, corredato di lunghi schedari contenenti i trascorsi criminali di molti di loro. Nel caso del Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi, agli autori servono letteralmente un centinaio di pagine per documentare il numero di candidati che sono stati arrestati o investigati con accuse che vanno dalla collusione mafiosa all’estorsione e alla frode. Credere che queste persone ripristineranno il ruolo della legge ed elimineranno il sistema di patronato, corruzione e infiltrazione di organizzazioni criminali nello stato, è ai limiti del credibile. Berlusconi è il principale erede politico del suo amico Bettino Craxi ed è riuscito ad evitare la campagna anticorruzione conosciuta come Mani Pulite - che ha condannato Craxi per corruzione – che minacciava lui e le sue varie aziende. Più che qualsiasi altro italiano, egli è responsabile per il blocco del sistema giudiziario italiano.

Un indizio rivelatore di quello che potrebbe riservare il nuovo governo Berlusconi ce lo dà “La paura e la speranza” di Giulio Tremonti, che è diventato un bestseller a sorpresa. Tremonti, ex uomo di sinistra che ha trovato fama e fortuna nella destra, è l’attuale (e precedente) Ministro delle Finanze di Berlusconi. Il suo libro sembra più una polemica antiglobalizzazione alla Naomi Klein piuttosto che l’analisi del Ministro delle Finanze di un governo conservatore. Tremonti attacca quello che egli definisce “marketism” - la feticizzazione del mercato, la riduzione di tutti i valori umani a dollari e centesimi - e denuncia l’apertura dei mercati europei alla competizione asiatica, che a suo parere è stata catastrofica per la produzione italiana. Tremonti si augura una politica “d’identità”, con la quale il Ministro intende un qualche tipo di politica industriale disegnata per rafforzare le istituzioni italiane e i loro valori.

Questo è un messaggio invitante lanciato agli italiani a cui non dispiace imputare i propri problemi a qualche minaccia esterna o a lavoratori stranieri. Quale identità politica intenda Tremonti per la gestione dell’economia, comunque, risulta evidente dalla difesa a tutti i costi della compagnia aerea nazionale, l’Alitalia, anche se la questione rappresenta il punto forse più saliente di cosa non va in Italia. L’Alitalia perde centinaia di milioni di dollari ogni anno ed è tenuta a galla solo grazie ai contribuenti.

Alitalia ha i costi più alti e la più bassa efficienza rispetto ai suoi principali concorrenti ed il suo sostegno da parte del governo italiano è in diretta violazione delle direttive UE in materia di prevenzione della concorrenza sleale. Nella prima parte dell’anno, il Governo Prodi, malgrado l’opposizione da parte dei suoi sostenitori nel sindacato, si è adoperato per vendere Alitalia ad Air France, a condizioni estremamente vantaggiose. Ma Berlusconi, il cosiddetto liberista, ha obiettato, dichiarando che l’Alitalia doveva rimanere italiana, accennando al fatto che i suoi due figli, che gestiscono gli affari mentre lui occupa di politica, sarebbero potuti venire in aiuto comprando la compagnia aerea nazionale e avanzando poi la proposta di un gruppo di uomini d’affari italiani che potrebbero essere stati interessati all’acquisto, se ben informati sui possibili vantaggi.

Va notato che i leader della Lega Nord si sono opposti alla vendita, asserendo che la cosa sarebbe equivalsa all’invasione medioevale di Federico Barbarossa nell’Italia settentrionale. Si sono dichiarati preoccupati in particolar modo del fatto che la prima mossa di Air France sarebbe stata di eliminare Malpensa come “hub” principale per via delle sue consistenti perdite. La Lega ha dimostrato in tal modo di non volere staccarsi dal sistema clientelare italiano.

Ora che Alitalia è sull’orlo della bancarotta, Berlusconi si sta organizzando per vendere la compagnia ad un consorzio italiano in modo da guadagnare così fiducia e contratti. L’affare finale sarà molto più costoso per i contribuenti italiani che non la vendita ad Air France e comporterà maggiori tagli del personale (ed anche questa possibilità pare di nuovo essere in dubbio). Difficilmente ci si aspetterebbe una cosa del genere da un Presidente del Consiglio che dice di tenere sul comò la foto di Margareth Thatcher.

Così come con le sue due precedenti incarnazioni da Primo Ministro nel 1994 e nel 2001, Berlusconi non è nuovamente riuscito a mostrare di saper gestire i problemi nodali e di fare scelte decisive. Al contrario, ha fatto passare leggi che permettono ad uno dei suoi canali televisivi di mantenere la frequenza che avrebbe dovuto invece cedere - secondo il regolamento europeo e secondo le leggi italiane - ad un concorrente o, in alternativa, passare al satellite. Berlusconi ha anche proposto una legge per impedire le intercettazioni della polizia in qualsiasi caso eccetto in quelli riguardanti terrorismo o crimine organizzato - dunque in caso di tangenti, corruzione e frode non si possono effettuare intercettazioni – ed una legge e per condannare fino a 5 anni i giornalisti che pubblicano intercettazioni.

Soprattutto, la nuova coalizione, in particolare la Lega Nord, ha puntato molto sulla paura verso l’immigrazione straniera. Uno dei leader della Lega, ora Ministro, ha chiesto di indire la “giornata del maiale” a Bologna dal momento che la città stava per far erigere una nuova moschea per i concittadini musulmani. Lo scopo era quello di inquinare il posto con maiale e prosciutto in modo da renderlo inutilizzabile per una moschea.

Uno dei poster per la campagna della Lega Nord mostrava un’immagine di un indiano americano con una lacrima che gli scorreva sulla guancia con su scritto lo slogan “hanno subìto l’immigrazione e ora vivono in riserve”. Il nuovo governo ha guadagnato popolarità attraverso le retate di immigranti clandestini e l’imposizione di impronte digitali a bambini zingari. Gli immigrati pagano per una percentuale di crimine non proporzionata, ma la criminalità è molto bassa tra gli immigrati legali. La semplice realtà tuttavia è che gli immigrati sono diventati il pilastro dell’economia italiana. Sebbene rappresentino il 6% della popolazione, essi da soli producono il 10% del prodotto interno lordo. Generalmente gli immigrati appartengono ad una fascia produttiva in età lavorativa, mentre l’Italia intera è un Paese in cui vi sono sempre più anziani ed in cui 1/5 della popolazione è in pensione. I lavoratori stranieri rappresentano qualcosa come il 20% della forza lavoro nelle industrie in settori di edilizia e agricoltura, anche in Lombardia, il nucleo del sentimento anti immigrati della Lega Nord. Una retorica dura anti-immigrati sarà pure ottima per fare della propaganda efficace, ma è un controsenso se si osserva la realtà economica e demografica del Paese.

C’è più di un motivo per poter credere che il terzo governo Berlusconi possa far più dei due precedenti. Berlusconi è ritornato al potere con una grande maggioranza in parlamento e una più forte coalizione con un numero inferiore di partner di governo con cui dividere il potere. Molti governi italiani, come lo scorso governo Prodi, sono stati indeboliti da negoziazioni senza fine con partner che hanno reso quasi impossibile una linea politica decisa e trasparente. All’età di 71 anni, con due amministrazioni senza successo alle spalle, Berlusconi sta pensando alla sua eredità e gli farebbe piacere mantenere la sua promessa di lasciare l’immagine di uomo che ha salvato l’Italia dai suoi problemi. Inoltre, la Lega Nord, ha puntato tutto sull’idea di federalismo fiscale, conosciuta in Italia come “devolution”, ossia un consistente aumento dell’autonomia regionale e locale. Si sta tentando di elaborare i dettagli di questa linea politica; se fatta intelligentemente, potrebbe dare un salutare scossone al Paese; se fatta malamente, potrebbe destabilizzare il sistema politico italiano e rendere l’attuale crisi ancora peggiore. Ma vista la profonda paralisi del Paese - e in assenza di altre idee migliori - potrebbe valer la pena provare.

Eppure il federalismo fiscale incontrerà il problema della dura opposizione da parte del sistema clientelare dell’Italia meridionale, fonte dalla quale Berlusconi riceve molti dei suoi voti. Dal canto suo, Berlusconi ha mostrato poco coraggio nell’affrontare il rischio dell’impopolarità su questioni prettamente politiche. Ad esempio, ha recentemente ritirato la proposta di riforma della scuola che ha suscitato proteste nelle strade. La riforma era di dubbio valore - concerneva in particolar modo tagli alle spese - ma intraprendeva anche azioni contro interessi radicati, per esempio, attraverso la chiusura di servizi sottoutilizzati in aree isolate. L’esperienza non è di buon auspicio per Berlusconi e la sua volontà di cambiare il sistema italiano.

2 febbraio 2009

¿El 3000 nos encontrará unidos o dominados?


EL INVESTIGADOR WALTER PENGUE DEBATE SOBRE AGRICULTURA, MEDIO AMBIENTE Y ECONOMIA
“Se está perdiendo la soberanía alimentaria de los pueblos”
Lleva años estudiando en el ámbito académico tópicos que recién ahora salen al debate público: los problemas ecológicos de la producción agropecuaria, el consumo, la crisis alimentaria, la economía y los costos naturales. “La Argentina es un gran territorio que no estamos sabiendo ocupar ni monitorear, ni manejar”, advierte.

Por Walter Isaía y Natalia Aruguete
–¿Cuál es la relación entre la crisis alimentaria en algunos países y la crisis financiera internacional?
–La población mundial tiene unos 6600 millones de habitantes. Existen modelos agrícolas que alimentan a esa población, prácticamente al 30 por ciento cada uno. Uno de esos modelos es la agricultura industrial que provee a los países desarrollados y a las grandes ciudades de los países en desarrollo, como la Argentina, Brasil, etc. Allí sí puede pensarse en una crisis alimentaria, vinculada con el flujo de alimentos y con el consumo en esos escenarios. Pero hay una gran parte del mundo que tiene una agricultura menos intensiva, de base campesina, de modelo agroecológico y desarrollo local de los productos que no vio pasar la crisis.

–¿Por qué no los afectó?
–Porque esa agricultura está vinculada con la gente: el intercambio es entre personas y no entre puertos y fluyen a través de sistemas de intercambio diferentes de los de los traders cerealeros, que son los que suben el precio de los alimentos y crean las crisis. Lo que se está perdiendo, en realidad, es la seguridad y la soberanía alimentarias de los pueblos. Si dejamos que el intercambio siga estando en manos de los grandes comercializadores de alimentos sí vamos a una crisis, pero de apropiación. La agricultura de base campesina podría triplicar su producción con apoyo tecnológico aplicado. Podríamos nutrir a muchos mediante una agricultura más independiente. Pero muy pocos se dedican a investigar para esos productores.

–¿Es posible diferenciar las reglas de juego entre las grandes comercializadoras y los pequeños productores y campesinos?
–Necesitamos más Estado que intervenga en los mercados, apoyando a las pequeñas economías de desarrollo agrícola y de pequeños y medianos productores, cuya producción apunta más a los mercados locales que a la exportación. Lo que hay que discutir es que las retenciones de los productos que se exportan no las terminen pagando los agricultores. Porque los traders lo único que hacen es tomar lo de los agricultores.

–¿Cómo se da esa relación entre grandes comercializadores y los agricultores?
–Tal como están planteadas hoy, las retenciones surgen del pleno del valor de los agricultores. Las cerealeras reciben el valor pleno y les descuentan a los agricultores el valor de la retención. Yo estoy a favor de las retenciones. Pienso que en un país de base agrícola, que quiere proteger esa base para escenarios futuros, debe haber un resarcimiento por el daño ambiental producido y la explotación de los recursos naturales. Pero debemos luchar por transferir el costo del uso de ese recurso ambiental a las comercializadoras de granos a nivel internacional.

–¿Cómo podría intervenir el Estado en este escenario?
–El Estado podría comerciar su producto más relevante a través de una comercializadora, argentina por ejemplo, que juegue en el mercado internacional. O juntándonos con países de la región y conformando una trader del Mercosur. Quizás, en parte, no se les ocurre. Pero eso sería una discusión con los sectores más importantes de la tierra, grupos corporativos que representan a países o que, incluso, los superan. Es más fácil discutir con los chacareros que con los pooles de siembra o con estos grupos expoliativos, que revientan los recursos naturales, los explotan a costo cero, toman sus ganancias y a nosotros nos dicen: “Muchas gracias”. Grupos como Dreyfus, Bunge, Cargill, Monsanto, Bayer. Dreyfus, Cargill y Bunge están comercializando una buena parte de los granos de la Argentina y lo hacen en un contexto legal que les damos como país. Tenemos que recuperar el manejo de los recursos naturales. Parte de América latina está apuntando a recuperar sus recursos, porque los países desarrollados los toman a costo cero. Los granos no tienen el valor del recurso intrínsicamente utilizado.

–¿Quién determina ese valor?
–El mercado internacional de granos: la oferta y demanda. Pero no se valúa el agua o el “índice templado” del país. No es lo mismo un país templado, que produce granos sin restricciones ambientales, como una helada o una nevada. En un año, la Argentina puede tener tres cosechas continuas con rotaciones agrícola-ganaderas recurrentes sin restricciones. Eso tiene un valor que no es reconocido. Se está usando el agua a costo cero.

–¿Cómo se calcula el costo del agua, por ejemplo?
–Se necesitan unos 550 milímetros de agua por hectárea en el caso de la soja de primera y 450 en la soja de segunda. Los nutrientes son otro factor. El costo de reposición del nitrógeno y el fósforo en el caso de la soja es un 25 por ciento del valor de la cosecha. Hay un pool de nutrientes en el suelo que año a año se va achicando.

–¿La crisis alimentaria puede ser pensada como un problema de acceso a los alimentos?
–Unos acceden y otros producen, pero no les alcanza para su población, como los países africanos. También está la cuestión de la limitación física. En Kenia, a los masai no los dejan acceder a los lagos fértiles con sus animales porque los utilizan para la producción de flores, que salen de Nairobi hasta Europa, donde las chicas las venden por la calle, mientras los masai tienen que migrar para poder sobrevivir. Esto pasa con nuestros productores en la zona chaqueña y con miles de agricultores en todo el mundo.

–¿Cuánto tiempo lleva estudiando el tema de la soja?
–Llevo quince años estudiando el tema de la soja transgénica. En ese entonces publicábamos en Estados Unidos, acá no había dónde. Discutíamos los temas de la soja con los extranjeros. Hoy ya no se puede ocultar más. En el 2000 escribí un libro, Cultivos transgénicos: ¿hacia dónde vamos?, donde preguntaba qué va a pasar con los temas ambientales, sociales, ecológicos y de salud. Estos temas saltan todos ahora, pero los discutíamos hace diez o quince años. En 2001 se empezó a discutir, pero siempre fue colateral, porque reconozcamos que al campo nadie le daba importancia. Comprendo la situación del corte de ruta porque diez años atrás desaparecieron 110 mil productores. En las buenas, los chacareros quieren ganar plata y están contentos. Están en su lógica capitalista, pero no son iguales los chacareros de la región chaqueña y los de la región pampeana, por ejemplo.

–¿A esos chacareros los afectaba la Resolución 125?
–En la coyuntura actual sí. En la anterior sabían que le estaban sacando una parte de su ganancia pero no iban a pérdida. Hoy pierden plata. Insisto en que tiene que haber retenciones, por el uso de recursos naturales que son de todos. Pero esas retenciones tienen que ser diferentes para un gran productor –un pool de siembra que es fácil de identificar– y para un pequeño y mediano productor. Además se debe reorientar la política agrícola del país. La Argentina no puede ser un país que sólo produzca soja; tiene un altísimo potencial para producir el abanico posible, que desatendimos en los ’90. Nadie se preguntó por qué en plena crisis del 2001/02 no tuvimos una crisis con la leche, cuando la caída de la lechería fue brutal. Fue porque los pibes no tomaban leche. Si hubiésemos estado en los niveles actuales de consumo no alcanzaba la leche y la hubiésemos tenido que importar.

–¿Qué momento importante marcaría en la historia de la producción agropecuaria?
–El último momento fuerte, que generó lo que estamos viviendo hoy, se dio a mediados de los ‘’90 con el paquete soja transgénica-siembra directa-glifosato. Eso dio vuelta el sistema de producción agrícola. Antes había una batería de 20 o 25 agroquímicos para controlar las malezas. Se usaban pero eran carísimos. Cuando llega el glifosato bajan los costos brutalmente.

–¿En qué porcentaje bajaron los costos con el glifosato?
–Del 40 por ciento que se gastaba en herbicidas se pasó a un 15 por ciento. Utilizando glifosato y soja transgénica no había problemas de malezas y no necesitaban dedicación, así que ampliaban su capacidad de trabajo a otros sectores. Pero ahora aparecen problemas de resistencia en malezas, como el sorgo de alepo, una de las malezas más críticas de todos los sistemas de climas templados. Es la peor maleza de la historia argentina. El control es muy complejo. En el Norte, se expanden por alrededor de 150 mil hectáreas, de Salta hacia el Sur. Esto va a generar que se vuelvan a encarecer los costos en herbicidas.

–¿Cuántas hectáreas hay cultivadas con soja?
–En esta campaña hay 45 millones de granos de toneladas de soja y 16 millones de hectáreas. Desplazan el maíz, el girasol, la lechería, la ganadería, la horticultura y, sobre todo, escenario natural y gente. Toda la región pampeana y el Chaco, que estaba disponible, ya está cubierta. Ahora es pura deforestación y ese costo nadie lo está asumiendo. Los europeos hablan del agro-combustible, pero están destruyendo todo este sistema, así que cuando hagan sus cálculos deberían incorporar los costos de destrucción en los países en vías de desarrollo.

–¿En qué magnitud avanza el corrimiento de la frontera agropecuaria?

–300 mil hectáreas por año. Además mucha gente se contamina con arsénico porque se pincha la napa para sacar agua para cultivo intensivo de soja: se les endurece el cabello, se les caen las uñas. Muchos campesinos, agricultores y comunidades indígenas son desplazadas.

–¿Se puede establecer alguna relación entre la deforestación y las sequías?
–La sequía es un fenómeno recurrente en la región pampeana. Puede tener que ver con un escenario de cambio climático que afecta a la región. Pero si en el Norte no hubiéramos deforestado tanto estaríamos enfrentando la sequía mucho mejor, sobre todo los que se cobraron la soja y ahora se están quejando porque no pueden cosechar. Hay empresarios temerarios que avanzaron sobre áreas que no debían desforestar, en algunos casos, sin permiso, y ahora pretenden cobrar los beneficios de un supuesto apoyo por problemas de sequía. A esos hay que diferenciarlos de los pequeños agricultores que quisieron seguir con sus cultivos y se vieron desplazados.

–¿Cómo podría definir los perjuicios ambientales que causan los agroquímicos?
–Uno de los perjuicios se da por la intensificación del uso de un único herbicida: el glifosato. Otro es la degradación del suelo en términos de explotación de nutrientes y la alteración de la estructura del suelo por la práctica de siembra directa.

–¿Qué incidencia tienen los productos transgénicos en la calidad de la alimentación?
–Hay algunos estudios que empiezan a demostrar que no es lo mismo una soja transgénica que una tradicional. Pero no tenemos la información necesaria para estudiar el tema en profundidad. Por suerte, el Gobierno empezó a hacerse algunas preguntas, pero no nos olvidemos que este Gobierno depende mucho de la soja. Además, esta preocupación por la salud la tendríamos que haber tenido quince años atrás.

–Algunas organizaciones plantean que el uso de los agrotóxicos es cancerígeno.
–El cóctel tecnológico es el que genera los problemas. Hay un cambio de factores, por los transgénicos, por la lluvia ácida y por otros aspectos, que debemos estudiar. Pero si hay un cambio del entorno agrícola a algunas poblaciones, que antes no tenían soja y ahora están rodeadas de ese cultivo, alguna interacción se produce. Y es responsabilidad del Estado investigar ese tema.

–¿Cómo definiría el mapa actual de la propiedad de la tierra en el país?
–La pregunta es: “¿para qué sirve la tierra?” ¿Es un escenario para la producción capitalizada y la asignación de riquezas para algunos sectores o es algo más? Argentina es un gran escenario liberado a las fuerzas del mercado global. Desde ese punto de vista, es un desastre en términos de asignación de tierras. En las ciudades porque se construye en cualquier lugar. En las áreas periurbanas los productores sojeros y hortícolas (más contaminantes que la soja) hacen lo que quieren y en las áreas rurales está dispuesta para la compraventa del mercado global. Hay 17 millones de hectáreas en manos de extranjeros. Y no hay una legislación que detenga esto.

–¿El censo agropecuario es una herramienta adecuada para estudiar el fenómeno de la concentración de la tierra?
–Hay muchas cosas que con los censos no se pueden detectar. Se puede detectar a productores que tienen un rango determinado de hectáreas, pero las sociedades anónimas esconden muchas cosas. Por ejemplo, los propietarios forman parte de sociedades anónimas, SRL que no se sabe quiénes son. Otros son directamente representantes de grupos económicos. Los pooles de siembra también neutralizan mucha información. Intentamos verlo a través de los catastros, pero en muchos lugares no se sabe en manos de quién está la tierra.

–¿De qué herramientas dispone el Estado para hacer un análisis más exhaustivo?
–La cuestión federal es compleja, en el área agrícola, agropecuaria y ambiental nos enfrentamos con regímenes feudales donde no es fácil acceder a la información. Incluso al Estado nacional no le es fácil obtener información. La Argentina es un gran territorio que no estamos sabiendo ni ocupar, ni monitorear, ni manejar. Los procesos de deforestación avanzan porque ni siquiera lo estamos monitoreando desde arriba. Hay muy poca gente en el territorio y si no volvemos al territorio no podemos hacer estas cosas. Los datos disponibles del censo son de 1988 y 2002, y los mayores cambios se dieron del 2002 en adelante.

–¿Cuál es la mirada que tiene la economía ecológica sobre las problemáticas que usted plantea?
–Trata de resolver uno de los problemas más grandes que tiene la humanidad: el conflicto economía-sociedad. Los ecólogos no pueden explicar a los economistas lo que pasa con los recursos naturales y los economistas entienden a la naturaleza como parte de la contabilidad. La economía ecológica hace un análisis de la sustentabilidad del sistema con un aporte transdisciplinario, desde una visión holística. Nos proponemos no quedarnos en el diagnóstico, sino decir lo que está pasando, que la sociedad pueda entenderlo y, en lo posible, ofrecer alternativas.

–¿Qué cuestiones están en agenda para la economía ecológica?
–Desde un punto de vista macro, una de las cuestiones que más preocupan es el intercambio Norte-Sur, el comercio ecológicamente desigual. Hay una transferencia de recursos naturales y una colocación de daños ambientales en la economía de origen a costo cero. Exportamos bienes que cotizan por su precio de mercado, pero que no se reconocen las externalidades, los costos no incluidos. El verdadero costo de producción debería ser el costo directo, más el costo indirecto, más las externalidades. Si dentro de los modelos agrícolas incluyéramos estos costos en concepto de externalidades, la agricultura inglesa no podría funcionar.

–¿Por qué?
–Porque incorporaría el costo de los contaminantes y sus efectos sobre la salud humana y la naturaleza. Además, sumaría la degradación del suelo y del agua. Restaurar todo es más costoso de producir. En el caso de la Argentina, todavía no estamos tan mal. Pero si incorporamos sólo el costo de los nutrientes no reconocidos, estaríamos hablando de un 25 por ciento de esa agricultura.

–¿Cuál es el cálculo económico de ese aumento?
–Para la campaña actual se calcula unos 2000 millones de dólares. Porque, además, los fertilizantes aumentaron mucho. Hice el cálculo en 2004 y era alrededor 1100 y 1200 millones. Y sólo hablo de dos nutrientes de los dieciséis que trae la soja. La soja es una planta altamente extractiva de nutrientes que, en momentos de buen manejo, repone nitrógeno, pero que en la situación intensiva actual, ni siquiera nitrógeno repone.

–¿Qué significado le dan al término “deuda ecológica”?
–Es un reclamo de los países del Sur hacia las economías del Norte por el reconocimiento de todos los daños producidos por el uso indebido de su naturaleza: el daño ambiental y la apropiación ilegitima de sus recursos naturales, en particular de la biodiversidad. Un aspecto central es lo que llamamos “biopiratería”, que es el uso incorrecto y la apropiación de las semillas y del conocimiento ancestral indígena y campesino que las empresas se llevaron junto con las semillas y no reconocieron. Otro es el uso del espacio vital. La Argentina es un país grande pero la huella ecológica de la Unión Europea y la pata de China ya están puestas sobre nuestro territorio.

–¿De qué forma lo está ocupando?
–No necesitan venir a invadirnos; a través del mercado internacional redireccionan lo que tenemos que producir. Los chinos decidieron utilizar los recursos en los países que no valoran el agua. Nos compran soja y destinan el agua que tienen para uso industrial, doméstico y agrícola. A futuro hay que discutir además la cuestión de la huella de carbono (cantidad de dióxido de carbono producida por un individuo medio en las distintas economías). A los europeos y norteamericanos ya les preocupa y están tratando de mitigarla, nosotros no le estamos dando importancia. Por la vía de la mitigación, con el tiempo, muchos van a pagar el costo del carbono como un impuesto, por ejemplo en los alimentos. Por eso la economía ecológica cuestiona los modelos de consumo y apunta a un cambio de paradigma. Es importante dar esta discusión para ver si vamos a seguir produciendo soja u otro cultivo.

–¿Cómo se instala una crítica al consumo en medio de una crisis donde se plantea que la solución es aumentar el consumo?
–Creo que hoy hay que decirle a la gente: “Si usted está consumiendo esto, no podrá seguir viviendo en este mundo”. El mundo tiene que apuntar a una disminución del consumo. El problema es que se pone en relación consumo y trabajo. Esa es la falta de originalidad de los economistas de buscar alternativas en otro tipo de trabajo para la gente. Hoy todos los chinos quieren tener un auto. Imagínense: un tercio del planeta, todos con autos. Prácticamente el 60 por ciento del hierro que se produce en el mundo va a China. Si no le paramos el consumo al planeta no tenemos más planeta. En el mediano plazo, no vamos a necesitar más automóviles porque no los vamos a poder usar. Lo que necesitamos es hacer más eficiente el transporte público y, por ende, el desplazamiento de la gente en las ciudades.

–¿Cuál sería un escenario productivo en la agricultura desde la perspectiva de la economía ecológica?
–Un enfoque básico es evitar el uso de agroquímicos, promover la producción alimentos sanos que nutran, promover el consumo local y regional y el desarrollo de áreas periurbanas verdes, donde la gente pueda tener sus propios alimentos o estén cerca de los lugares de consumo. Que el vínculo entre lo que se produce y lo que se consume tenga como intermediario al agricultor, que hoy es expulsado. Que se mantenga una economía social de intercambios, que fluya además del dinero, y que disminuya la huella de carbono.

–Antes éramos “el granero del mundo”. ¿Hoy cómo definiría a la Argentina?
–La Argentina podría ser el supermercado del mundo en términos de diversidad, pero lamentablemente nos hemos convertido en una granja exportadora de dos o tres productos. Estamos atados de pies y manos produciendo lo que unos pocos nos indican. Está en riesgo la soberanía alimentaria, energética y ambiental del país.